Per la maggior parte degli uomini del Medioevo, soprattutto prima del Duecento, il santo è in primo luogo un morto illustre, di cui non si conosce con precisione la storia ma di cui si sa che in vita ha sopportato persecuzioni e patimenti per l’amore di Dio. Di qui l’importanza fondamentale del corpo – solo punto di contatto fra i servi di Dio e i fedeli che li venerano – nello sviluppo dei culti e delle leggende. In particolare, quel corpo martoriato e umiliato dai carnefici e talvolta dall’ascetismo dei santi stessi, dopo la morte trovava una misteriosa integrità, sinonimo di elevazione divina.
Nella mentalità comune del tempo, i corpi incorrotti dei santi emanavano un buon odore e possedevano la meravigliosa capacità, che condividevano con l’ostia consacrata, di poter essere divisi senza perdere nulla della loro efficacia, cioè dei poteri ricevuti da Dio al momento della morte benefica. Tali convinzioni si ponevano alla base del culto delle reliquie: particelle di un corpo sacrificato e frammentato che, a somiglianza del Cristo, non cessava tuttavia di essere sorgente di vita e promessa di rigenerazione.
A partire dal XII sec. – e in Italia anche dall’XI – l’immagine della santità cominciò gradualmente a mutare in rapporto con le trasformazioni culturali e religiose dell’epoca: accanto al culto delle reliquie, la cui voga non si smentirà sino alla Riforma, si assistette allo sviluppo di forme di devozione rivolte verso uomini e donne a cui l’opinione pubblica accordava spontaneamente il titolo di santi in base alla loro esistenza. Non ci si contentava più di venerare degl’intercessori più o meno illustri: il popolo manifestava ormai, soprattutto nei paesi mediterranei, un crescente interesse per figure familiari e recenti. Il santo non si riduceva a un corpo dotato di straordinari privilegi, ma si presentava in primo luogo come un essere vivente.
Il santo, in vita, si riconosceva in primo luogo dal fatto che aveva domato in sé la natura; da questo gli veniva in cambio un potere soprannaturale sugli elementi e sugli animali. Così, ad esempio, gli eremiti fanno sprizzare delle sorgenti accanto alla loro cella e fiorire un pezzo di legno secco piantato in terra. Attraversano il fuoco senza bruciarsi e fanno tacere con un semplice gesto gli uccelli che disturbavano con il loro canto una funzione religiosa. Si ritrova alla base di questo un modello antropologico comune a diverse religioni – in particolare l’Islam – fondamentalmente privo di qualunque connotazione morale o idea di esemplarità, in cui il riferimento al cristianesimo è spesso assicurato nell’agiografia solo da un’assimilazione delle privazioni ascetiche del servo di Dio alle sofferenze del Cristo.
Non è certo che questo accostamento sia stato fatto spontaneamente dalle folle che affluivano per vederlo e toccarlo. Se un tale modello allora conobbe tanto successo, è in primo luogo in ragione della sua efficacia: mettendo la sua potenza soprannaturale al servizio degli uomini, e in primo luogo dei meno favoriti dalla sorte, malati e prigionieri, il santo si presentava innanzitutto come l’uomo delle mediazioni riuscite. Con l’esorcismo poteva espellere i demoni e reintegrare gli esclusi nei loro gruppi originali. Grazie al prestigio che possedeva e al timore che ispirava, arrestava le vendette, riconciliava i nemici e restaurava la concordia dove regnava l’odio e la divisione.
Ma vedere nel santo solo un abile negoziatore che dirime i litigi col suo savoir faire, significherebbe diminuire l’importanza della sua funzione. Di fatto la sua autorità dipende a un tempo dal suo genere di vita e dalla sua estraneità rispetto a quelli che sollecitano il suo intervento. Provenienti spesso dall’élite sociale e culturale, gli uomini di Dio erano in ogni caso estranei all’umanità comune. La loro ascesi, rendendoli “inumani”, li dissociava da essa ancora di più. Rotti i legami familiari ed economici che li legavano al mondo, alieni alla compagnia delle donne che avrebbero potuto a contribuire ad assegnare loro un posto bene definito, apparivano, in ultima analisi, come le sole persone totalmente libere e indipendenti in una società spesso paralizzata dalle sue tensioni interne e dalle sue contraddizioni. Quindi non stupisce che abbiano spesso costituito per questa l’estrema risorsa in caso di difficoltà grave o di crisi. Uomini di fede che hanno basato su una scommessa la loro esistenza, offrono con la loro sola presenza un rimedio all’ansia e una risposta al bisogno di certezza che anima chi si rivolge a loro. È a questo livello che si vede intervenire la dimensione religiosa della santità: si aspettava infatti dai servi di Dio che consacrassero l’energia soprannaturale che si era accumulata in loro a ristabilire relazioni normali fra gli uomini e fra questi e la natura, là dove il demonio le aveva distrutte. Attraverso il miracolo l’ordine del mondo perturbato dal peccato veniva ristabilito. Perché alla radice del male, quasi sempre, si situava una colpa che la lucidità spirituale dei santi permetteva loro di discernere e di mettere in evidenza. Quando questo peccato era troppo radicato, essi si contentavano di prevedere e di annunciare le catastrofi che non avrebbero mancato alla fine di determinare: da qui la loro condizione di taumaturghi e profeti.
I santi costituivano per i fedeli il sacro in quanto accessibile, indipendente da ogni mediazione clericale, poiché bastava, per beneficiare delle loro virtù, andare a trovarli quand’erano ancora di questo mondo o andare alla loro tomba dopo la loro morte. Ben presto – comunque a partire dal secolo XIII – non fu più nemmeno necessario recarsi a un santuario per essere esauditi: una semplice invocazione, seguita da un voto che implicasse la promessa di un’offerta, bastava a stabilire tra il fedele e il suo protettore celeste una relazione tale da far beneficiare il primo dell’intercessione del secondo (Boesch Gajano 2004, pp. 3-18; Vauchez 2004, pp. 375-388).
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