Nel 1698, con la nomina a vescovo di Mondovì dell’allora commendatario Giovanni Battista Isnardi di Caraglio, l’abbazia di Novalesa passò in mano regia quale beneficio vacante. Tale condizione perdurò per un trentennio, consentendo al potere sabaudo di amministrare direttamente la struttura e il suo patrimonio. Nella fattispecie, tra il 1709 e il 1718, Vittorio Amedeo II ordinò la ristrutturazione dell’intero complesso, con il risultato di un radicale aggiornamento degli spazi al gusto del tempo (Cerri 2004, p. 17; Ludovici 2019, p. 26). 

Poco dopo la metà del Settecento, l’abbazia vantava un reddito annuo di 6.500 lire, derivanti dai beni e dalle rendite dislocate in Maurienne, in Val Cenischia e nei territori di Rivera, Caselette, Alpignano e Rivoli. Tra il 1757 e il 1767 il commendatario Antonio Videt s’interessò prevalentemente dell’amministrazione delle tre parrocchie dipendenti dal cenobio (Venaus, Novalesa e Ferrera Cenisio), vigilando sulla cura d’anime e i rapporti con il clero locale. Nel 1767, con la morte del Videt e la mancata nomina di un suo successore, l’abbazia passò nuovamente in mano regia per i successivi tre anni, sino all’arrivo del commendatario Pietro Antonio Maria Sineo. Questi, visitando le parrocchie di sua pertinenza nel 1771, ebbe modo di vagliare con attenzione l’impegno dei chierici nella cura d’anime, il modus vivendi delle popolazioni del luogo e l’operato delle varie confraternite, a cui richiese una maggior precisione nella rendicontazione delle proprie finanze. L’anno dopo lo stesso Sineo concesse le parrocchie della Val Cenischia alla neonata diocesi di Susa, conservando per il cenobio e il suo commendatario le rendite e le prerogative feudali sugli abitati di Novalesa, Venaus e Ferrera Cenisio (Lunardi 1998, pp. 172-176). In seguito, il numero dei religiosi diminuì favorendo la rovina del complesso monastico, danneggiato ulteriormente dal passaggio delle truppe napoleoniche nel 1794. Quattro anni più tardi, con la soppressione degli Ordini religiosi da parte del Governo Provvisorio del Piemonte, i monaci e parte dei beni dell’abbazia furono trasferiti all’Ospizio di S. Maria del Moncenisio, considerato ancora un’utile presenza assistenziale lungo la strada di collegamento tra il versante italiano e quello francese (Ludovici 2019, pp. 26-27).

Dopo la caduta di Napoleone, l’importanza del servizio reso dall’ospizio fu largamente ridimensionata dal calo dei transiti di truppe e viandanti attraverso il Colle, pertanto dom Antonio Marietti (succeduto a dom Gabet nel 1813), considerando i mezzi a sua disposizione e l’età ormai avanzata dei soli 3 monaci rimasti con lui, decise di lasciare il Colle per ritornare a Novalesa. L’abbazia, riparata nei guasti più urgenti e dotata delle suppellettili necessarie al culto, riaprì nel 1821 quale comunità aggregata alla Congregazione Benedettina Cassinese, condizione che perdurò sino alla successiva soppressione dell’ente monastico nel 1855-1856. 

In seguito, la riduzione del cenobio in centro idroterapico (1862) e il passaggio dell’intero complesso al Convitto Nazionale Umberto I di Torino (1884) determinarono un profondo sconvolgimento dei locali e degli arredi in esso contenuti, tra trasferimenti, vendite e alienazioni improprie, determinanti la successiva dispersione e frammentazione del patrimonio storico-artistico dell’abbazia.  

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