Dell’Abbazia dei Ss. Pietro e Andrea di Novalesa si conserva l’atto originale di fondazione, datato al 30 gennaio 726. La minuscola merovingica canonizzata con la quale il documento è stato redatto su pergamena riporta il nome del fondatore Abbone, “rector” nelle regioni di Maurienne e Susa, ossia titolare della carica di “governatore” presso le Valli dell’Arc e della Dora Riparia (Cancian 2006, pp.46-47). Come esponente di una ricca famiglia aristocratica del regno franco e titolare di un ufficio pubblico, seppe legare le proprie fortune personali alla dinastia in ascesa dei pipinidi-carolingi, maestri di palazzo presso la corte merovingia. In particolare, la sua vicinanza al franco Carlo Martello si palesò attraverso l’azione mediatrice che esercitò in occasione delle ribellioni che precedettero l’annessione dei territori del basso Rodano al regno merovingico controllato dai carolingi.
Nell’azione di governo di Abbone la fondazione del monastero di Novalesa, posto al di qua delle Alpi, ai piedi del colle del Moncenisio, ebbe lo scopo di promuovere l’azione di una comunità di monaci dediti all’ascesi e al sostegno del regno e del popolo dei Franchi, per il bene della Chiesa e del re, e in grado di riformare la vita monastica delle due valli soggette all’autorità del governatore. La “selva” di firme che chiude l’atto di fondazione testimonia che i sottoscrittori – oltre ad Abbone – furono quattro vescovi, due abati, un arcidiacono e altri chierici. Dunque, sin da subito Novalesa attirò su di sé l’interesse dell’alto clero della Maurienne e di Susa, come delle autorità civili, proponendosi quale centro di rilevanza religiosa presso i territori limitrofi e non solo. Infatti, nel 739 – tramite una donazione testamentaria di quasi tutti i suoi beni – Abbone dotò l’abbazia di una fitta rete di possedimenti terrieri e chiese che andavano dalla Valle Cenischia alla Valle di Susa, dal Moncenisio alla Maurienne, a Grenoble, Vienne, Lione, da Briançon a Embrun, Gap e Sisteron, sino a Marsiglia, Arles e Tolone. I beni transalpini erano i più numerosi, ma posti gli uni a grande distanza dagli altri e non sottoposti al controllo di centri di coordinamento, ad eccezione delle due curtes di Tallard e Upaix, nella regione di Gap. La quota cisalpina del patrimonio invece era territorialmente più esigua e concentrata attorno al cenobio e quindi più facile da amministrare e da usare come base signorile. I possedimenti novalicensi furono organizzati secondo una ripartizione in pagi e centri curtensi, per essere sfruttati nei modi più diversi: vi erano pascoli, alpeggi, vigneti, oliveti e, nell’area provenzale, saline. Tra l’VIII e il IX secolo, i monaci seppero ampliare la propria presenza fondiaria in Valle di Susa con ulteriori beni lungo il corso del Cenischia, a Oulx e nella conca di Bardonecchia, acquisendo nuovi castelli, introiti fiscali e diritti di giustizia che ne confermarono l’influenza nel regno carolingio (Destefanis, Uggé 2006, pp. 48-49). La nuova fondazione, pensata autonoma da ogni ingerenza esterna e sentita come opera dei ceti eminenti della Maurienne e di Susa, agli occhi delle élites di governo carolingie assunse il ruolo di monastero di confine posto ai margini dell’espansione del regno, quale avamposto etnico verso la longobarda Pianura Padana. Con Carlomanno, Carlo Magno e Lotario, pronti a offrire la propria protezione all’abbazia, Novalesa fu assimilata a una vera e propria fondazione regia del cui patrimonio i re franchi disposero come se fosse cosa loro (Sergi 2004, pp. 21-23). A tale fase storica, tra i secoli VIII e IX, corrispose la definizione a livello architettonico degli spazi del cenobio, secondo le disposizioni e necessità imposte dalla Regola benedettina. Fulcro della struttura era la chiesa abbaziale – caratterizzata dalla semplicità della navata unica – a cui facevano da corollario gli spazi del chiostro, delle celle, la serie di quattro cappelle poste nelle adiacenze dell’edificio principale e gli spazi comprendenti – tra gli altri – lo scriptorium, un laboratorio specializzato nella copia e nel restauro di codici antichi e una ricca biblioteca (Cantino Wataghin 2006, pp. 64-65).
Agli albori del sec. X, la tranquilla vita del cenobio fu sconvolta dalla paura di possibili incursioni saracene, tant’è che tra il 912 e il 920 l’allora abate Domniverto decise di abbandonare Novalesa per rifugiarsi con la propria comunità di monaci a Torino presso il convento dei Ss. Andrea e Clemente (l’attuale Consolata). Dopo il 920, con l’effettiva distruzione del monastero per mano saracena, i monaci novalicensi decisero di non far ritorno in Valle di Susa e, grazie alla protezione del marchese Adalberto di Ivrea, ottennero la possibilità di stanziarsi nel contado di Lomello, dove nel 929 sorse la nuova San Pietro di Breme. In questo succedersi di spostamenti la comunità benedettina portò con sé suppellettili e masserizie, nonché gran parte della sua ricca biblioteca; il tutto fu affidato a Riculfo, preposito della chiesa cattedrale di Torino, che però non seppe frenare la dispersione dei preziosi beni. Tuttavia, la memoria del cenobio novalicense continuò a vivere presso i monaci bremetensi, tant’è che un gruppo di loro, guidati da Bruningo, scelse con intraprendenza di tornare in Valle di Susa nella seconda metà del sec. X, impegnandosi nella ricostruzione del monastero, che con il finire del secolo rinacque per volontà dell’abate Gezone, come priorato dipendente dalla chiesa madre di Breme. Premessa fondamentale per la rinascita di Novalesa fu la scomparsa della minaccia saracena, frutto dell’azione militare dell’ufficiale franco Arduino il Glabro, che liberò la Valle entro il 972-973, proponendosi quale nuovo detentore del potere nell’area torinese, prima come conte e poi come marchese (Sergi 2004, pp. 23-26).
La natura conflittuale dei rapporti intercorsi tra il potere marchionale degli Arduinici e il priorato novalicense durante il sec. XI trova un’eccezionale testimonianza nella Cronaca redatta da un anonimo monaco del cenobio (Alessio 2000 a; Alessio 2000 b). L’impegno della dinastia arduinica nell’acquisire basi fondiarie su cui costruire un proprio potere signorile ereditario, insieme alla creazione del “monastero di famiglia” di San Giusto, sorprendeva e irritava la comunità novalicense che aspirava a esercitare come in passato un vasto controllo su tutta la Valle. Tali ambizioni furono ulteriormente ostacolate dalla vicinanza di nuovi e potenti enti religiosi come San Michele della Chiusa e la Prevostura d’Oulx (Casiraghi 2005, pp. 31-34). Per ovviare a simili circostanze e recuperare l’antico prestigio, Novalesa intraprese, attraverso la scrittura del suo anonimo cronista, un’azione di organizzazione documentaria di forte significato ideologico, finalizzata a ristabilire la legittimità delle proprie prerogative. Il documento è suddiviso in due nuclei fondamentali: nel primo sono narrate le vicende dell’abbazia prima della distruzione; mentre il secondo riporta la storia del ritorno dei monaci in Valle. Tra le due parti si pone il fatale attacco saraceno. La seconda parte è scandita da un tono capace di porre in rilievo il contrasto tra il mondo interno al cenobio, pervaso dalle qualità positive della mitezza, della santità e dell’ordine, e il mondo esterno identificato nella violenza, nel disordine e nella crudeltà delle competizioni territoriali. Il testo non è privo di passaggi in cui è stato dato spazio ad ardite ed elaborate riletture della storia atte a confermare il prestigioso passato dell’abbazia. Basti pensare ai passi in cui viene narrato che l’arco romano di Susa fu costruito da Abbone, a perenne memoria della sua volontà e dei diritti del monastero (Sergi 2006, pp. 58-59).
Un riavvicinamento tra i monaci e i marchesi si configurò all’indomani del matrimonio tra Adelaide e il conte di Moriana-Savoia Oddone, esponente di quegli ambienti aristocratici transalpini dove il priorato non era considerato un avversario, bensì un ente da proteggere. Fu così che, negli ultimi anni di Adelaide (†1091), Novalesa fu destinataria di una serie di concessioni rispondenti alla politica riformatrice della contessa. Nei decenni successivi il monastero seppe riorganizzare la sua presenza nell’area montana circostante e, grazie agli stretti legami con i conti e i vescovi della Maurienne, seppe ricostruire i propri possedimenti al di là delle Alpi nelle Valli dell’Arc e dell’Isere. Il sec. XII assistette alla definitiva affermazione del cenobio, che con crescente autonomia e indipendenza andò affrancandosi dal controllo della Casa Madre di Breme. I rapporti con quest’ultima incominciarono a incrinarsi quando, ai primi del Duecento, Stefano – già priore novalicense – fu eletto abate di San Giusto e mantenne entrambe le cariche. Una situazione analoga si verificò nel 1234 con la nomina del priore novalicense Giacomo ad abate del cenobio segusino. Ormai l’abate di Breme, incapace di far valere il peso della sua autorità, doveva limitarsi a chiedere garanzie circa la non alienabilità del patrimonio del monastero e il reclutamento dei monaci. Il connubio Novalesa – San Giusto perdurò così saldamente che nel corso del Trecento i monaci novalicensi furono persino disposti a eleggere loro priore un qualunque monaco dell’abbazia segusina, purché fosse dotato dei requisiti conformi al ruolo che avrebbe rivestito. Inoltre, erano preferiti i membri di famiglie abbastanza ricche nell’ottica di trarne sempre nuovi vantaggi materiali. L’ultimo monaco di San Giusto a ricoprire il ruolo di priore di Novalesa fu Vincenzo Aschieri di Giaglione nel 1398. Al suo mandato risalgono il totale allentamento dei rapporti con Breme e la sventata ipotesi di un’unione con San Michele della Chiusa. Dopo la sua morte, nel 1452, si passò ad amministratori esterni scelti dai Savoia con l’approvazione papale. Il primo, sino al 1457, fu il francescano Ubertino Borello di Moncalieri, confessor et consiliaribus del duca Ludovico. Come nuovo superiore difese i beni del monastero da soppressioni e ingerenze indebite, ma né lui né i suoi immediati successori seppero frenare la progressiva riduzione del numero dei monaci e la sempre più difficile gestione dei possedimenti e delle rendite dell’abbazia (Sergi 2004, pp. 27-31). Così, nel 1479, il priorato fu istituito in commenda e assegnato alla famiglia Provana di Leinì, che ne mantenne la titolarità sino al 1684. Entro la prima metà del sec. XVII, la nuova impronta istituzionale assunta dal cenobio dimostrò di non poterne più garantire la stabilità economica, vista la scarsezza delle rendite. Conseguentemente vennero meno le condizioni necessarie all’esercizio della vita monastica. La comunità arrivò a contare tre soli monaci, dai tredici di un secolo prima, i quali agivano in modo autonomo e arbitrario spartendosi i benefici della mensa conventuale per goderne separatamente. Preoccupato della situazione, Maurizio Filiberto Provana, commendatario dal 1641 al 1684, decise di riformare la realtà novalicense affidando l’uso perpetuo della chiesa e le pertinenze del complesso abbaziale a un gruppo di Cistercensi Riformati di S. Bernardo. Quest’ultimi, insediatisi il 1° febbraio 1646, diedero corso a un modus vivendi improntato all’insegna dell’austerità e della povertà, impegnandosi altresì in un complessivo piano di ristrutturazione degli spazi cenobitici. In particolare, demolirono le cappelle che due secoli prima erano state inserite ai lati della chiesa e ridefinirono la composizione degli ambienti intorno al chiostro (Lunardi 1998).
Nel 1698, con la nomina a vescovo di Mondovì dell’allora commendatario Giovanni Battista Isnardi, l’abbazia passò in mano regia come beneficio vacante. Tale condizione perdurò per un trentennio, consentendo al potere sabaudo di amministrare direttamente la struttura. Nella fattispecie, tra il 1709 e il 1718, Vittorio Amedeo II incaricò Antonio Bertola, Ingegnere e Architetto Militare di Corte, di risistemare la chiesa. Quest’ultima, di fatto, fu completamente ricostruita, assumendo l’aspetto attuale. Come evidenziato da Maria Grazia Cerri, «l’architettura di Bertola, ispirata a canoni barocchi un po’ raggelati, prevaricò definitivamente i caratteri originali dell’antica abbazia; la concezione intimistica che aveva ispirato la costruzione medioevale – sulla quale le trasformazioni precedenti già avevano inciso, ma non in modo così sostanziale – fu del tutto sopraffatta dalla solenne spazialità della nuova architettura» (Cerri 2004, pp. 16-17; Zonato 2019, pp. 236-238).
Nel corso del sec. XVIII, nonostante la nomina di nuovi abati commendatari, il cenobio andò incontro a un progressivo decadimento. Come già accaduto in passato, il numero dei religiosi diminuì favorendo la rovina degli edifici monastici, sottoposti altresì alle pesanti devastazioni perpetuate dal passaggio delle truppe napoleoniche nel 1794. Con l’avvento del Bonaparte, nel 1798 il Governo Provvisorio del Piemonte soppresse gli Ordini religiosi. I monaci e parte dei beni del cenobio furono trasferiti all’ospizio di Santa Maria del Moncenisio, ancora considerato un’utile presenza assistenziale lungo la nuova strada di collegamento tra il versante italiano e quello francese. Di lì a poco, però, la scomparsa dell’impero napoleonico (1814) e la successiva Restaurazione ridimensionarono l’importanza dell’ospizio, spingendo i monaci del valico verso l’abbazia novalicense. Quest’ultima, riparata nei guasti più urgenti e riarredata delle suppellettili necessarie al culto, riaprì nel 1821 quale comunità aggregata alla Congregazione Benedettina Cassinese (Ludovici 2019, pp. 283-285). Nel 1855, con l’approvazione da parte del Regno di Sardegna della Legge Rattazzi per l’incameramento dei beni degli istituti religiosi non dediti alla beneficienza, predicazione o insegnamento, i benedettini dovettero lasciare la Novalesa. Di conseguenza, le proprietà fondiarie del cenobio furono vendute, codici e documenti dell’ente vennero depositati nell’Archivio di Stato di Torino, i libri approdarono al Seminario di Susa, i quadri furono trasferiti nella vicina parrocchiale di S. Stefano, mentre gli arredi sacri andarono alla cattedrale segusina. Nel 1862 il complesso monastico fu messo all’asta e acquistato da un certo dottor Angelo Maffoli, che vi organizzò un istituto idroterapico riadattando la chiesa abbaziale in caffè, sala da pranzo e «sala a fumare» e allestendo le attrezzature curative in alcuni ambienti adiacenti. Nel 1884, un nuovo passaggio di proprietà trasformò il cenobio nella sede estiva del Convitto Nazionale Umberto I di Torino, comportando il parziale recupero della chiesa come spazio liturgico e la sopraelevazione dell’ala sud del chiostro per collocarvi dormitori e aule scolastiche (Cerri 2004, pp. 17-19).
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