Il degrado e gli usi impropri non impedirono all’ex monastero di essere compreso dapprima nell’elenco “provvisorio degli edifici monumentali della provincia di Torino” del 1896 e poi nel primo Elenco degli edifici monumentali in Italia del 1902. Otto anni più tardi seguì la dichiarazione di vincolo monumentale per la chiesa e le cappelle circostanti. Nel 1969 la tutela fu estesa anche ai vicini corpi di fabbrica e ai terreni limitrofi, promuovendo un vincolo paesaggistico atto a sventare possibili speculazioni edilizie.
Il 12 dicembre 1972, grazie al decennale interessamento del senatore Giuseppe Sibille, di mons. Severino Savi, dell’Amministrazione Comunale e della Pro Loco di Novalesa, il Consiglio Provinciale di Torino deliberò l’acquisto dell’abbazia, da tempo disabitata, e decise di restituirne l’uso e la custodia all’Ordine benedettino. Fu così che il 14 luglio 1973 un primo gruppo di quattro benedettini sublacensi, provenienti dal monastero veneziano di S. Giorgio Maggiore, s’insediò in loco. In seguito, il 29 giugno 1974 don Gabriel Brasò, abate presidente della Congregazione Benedettina Sublacense, pubblicò il decreto con il quale fu approvata la fondazione novalicense e tredici anni più tardi, il 30 novembre del 1987, la stessa Congregazione formulò il decreto di elevazione della Novalesa a priorato indipendente.
Con il ritorno dei monaci, sin dal 1976 le Soprintendenze ai Beni Ambientali, Architettonici e Storico-artistici hanno dato avvio a un comune programma di indagini archeologiche e di restauri – a tutt’oggi in corso –, che ha portato al recupero delle cappelle, della chiesa abbaziale (riconsacrata il 15 ottobre 1995), delle ali del chiostro e di numerose decorazioni ad affresco pertinenti alle diverse fasi di vita dell’abbazia. In particolare, a partire dal 1997 è stato predisposto un progetto globale di restauro e riuso funzionale del complesso dall’Ufficio Tecnico dell’Amministrazione Provinciale di Torino. Lo Studio di fattibilità dell’intervento ha posto alla base dell’intera operazione il rispetto dell’esistente, che è stato «considerato come una delicata trama di membrature di origine diversa che si sono assestate nel tempo». L’atteggiamento operativo ha previsto una serie d’interventi minimi tendenti a ripristinare, ad esempio nei prospetti, le aperture originarie eliminandone alcune realizzate di recente, al fine di «ristabilire un dialogo tra le mura del monastero e il contesto naturale di cui è parte». Il principio di reversibilità ha guidato gli accorgimenti più innovativi nel pieno rispetto del preesistente carattere dei luoghi e l’iter dei lavori ha portato alla creazione di spazi atti esclusivamente alle funzioni della vita monastica, con accanto percorsi e ambienti fruibili per il pubblico di visitatori esterni, il tutto con doveroso riguardo per la riservatezza della vita monastica. Tra gli ambienti recuperati merita una menzione particolare il laboratorio del restauro del libro antico riallestito nei vani della manica a sud del chiostro, segno di una vitalità culturale che apre all’esterno la comunità benedettina e arricchisce di una presenza importante il territorio valsusino (Cerri 2004, pp. 17-19; Novelli 2005).
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