L’episcopato segusino è una realtà storica di recente formazione, in quanto data al 3 agosto 1772. Durante i secoli precedenti l’amministrazione ecclesiastica del territorio valsusino rientrò – probabilmente a partire dal IX secolo – tra le competenze del vescovo di Torino. Da subito, all’azione del presule torinese si affiancò, spesso in senso concorrenziale, quella degli enti monastici locali, che forti del prestigio delle proprie origini e tradizioni seppero inserirsi quali protagonisti attivi nelle vicende che interessarono gli abitanti della Valle nel corso dei secoli. Dunque, sin dalle sue origini medioevali, l’ordinamento ecclesiastico in Valle di Susa si assestò su precisi poli di orientamento: da un lato, l’autorità dei vescovi di Torino e, dall’altro, le abbazie locali (Zonato 2005, p. 52), con un corollario di prevosture (S. Maria del Moncenisio e S. Lorenzo d’Oulx), di priorati con distretto plebano (S. Maria di Avigliana e S. Maria di Susa) e della pieve di Caprie (Casiraghi 2005, p. 29).
Per quanto attiene ai monasteri, oltre ad essere dei centri spirituali, furono – sin dall’alto medioevo – tra i più attivi animatori della vita economica, sia sul fronte dell’agricoltura che su quello commerciale. In genere la loro presenza sul territorio fu sinonimo di azioni di bonifica e dissodamento finalizzate ad incentivare la produttività dei suoli e capaci di impegnare come manodopera gli abitanti delle località comprese o circostanti le proprie pertinenze. In alcuni casi, in prossimità di centri monastici nati originariamente in luoghi deserti ed incolti sorsero col tempo nuove borgate – come accadde ad esempio a Novalesa – dove trovarono dimora tutti quegli uomini a cui il cenobio offriva, direttamente o indirettamente, una possibilità di sostentamento con il lavoro nei campi e l’allevamento (Penco 1983, pp. 376, 378 e 381). Nel caso valsusino, la vicinanza ad importanti arterie stradali e valichi alpini influì sulla fondazione e successivo sviluppo delle abbazie; infatti la presenza di luoghi come i monasteri, pronti ad offrire ospitalità ed accoglienza ai viandanti, garantiva un crescente afflusso dei traffici e per ciò fu favorita dalle potenti famiglie locali che controllavano le strade e traevano profitto dalla riscossione dei pedaggi. Dunque, la strada, con il suo flusso di uomini e merci, restituì alle comunità religiose un ruolo di primo piano nella vita economica della società e allo stesso tempo le espose ai pesanti condizionamenti dei titolari dell’amministrazione civile con i quali si susseguirono alleanze o aperte controversie. In particolare, gli abati dei monasteri coltivarono propositi signorili che furono gradualmente inglobati – a partire dall’XI secolo – dai marchesi arduinici, prima, e dai Savoia, poi, pronti a legittimare la propria presenza in valle sfruttando il peso sociale dei cenobi. Non mancarono anche i contrasti con l’autorità diocesana; ma in questo caso l’esistenza di una precisa normativa canonica diede modo ai monasteri di difendere le proprie autonomie e definire il limite tra giurisdizione monastica e vescovile.
Nel complesso, tra l’XI e il XIV secolo il monachesimo valsusino dimostrò in più occasioni la tendenza a coordinare le chiese della valle interferendo nell’amministrazione del sistema plebano di Susa o in quello dipendente dalla prevostura d’Oulx. Ispiratori della vita monastica in valle furono: l’antica abbazia dei Ss. Pietro e Andrea di Novalesa e l’ospizio del Moncenisio di età carolingia; San Michele della Chiusa e San Giusto di Susa, testimoni illustri dell’impegno religioso dei ceti aristocratici di X e XI secolo; la certosa di Montebenedetto, espressione di quella tensione eremitica diffusasi nella zona a partire dal Duecento. Da ultimo, non vanno dimenticati i canonici regolari d’Oulx e gli enti ospedalieri di Chiomonte e Susa, coordinatori della vita plebana i primi, punti di riferimento per i pellegrini e i viandanti della “via Francigena” i secondi (Casiraghi 2005).
L’abbazia benedettina di San Giusto di Susa
La chiesa di San Giusto fu consacrata il 18 ottobre 1027 e due anni più tardi, il 9 luglio 1029 fu eretta in chiesa abbaziale per volontà del marchese di Torino Olderico Manfredi, il quale concesse alla nuova comunità benedettina sia l’area su cui sorgeva la chiesa, sia la terza parte dei propri possedimenti in Valle di Susa. Il monastero fu così dotato di un patrimonio fondiario che si estendeva dai passi del Moncenisio e del Monginevro sino all’abitato di Vaie, nella media valle e, al di là di questa, contava alcune corti situate in altre zone della marca torinese come Vigone e Volvera. Il cenobio fu concepito dagli arduinici come un’entità indipendente dall’episcopato torinese e da altri enti religiosi, tanto che i marchesi di Torino si riservarono il diritto di elezioni degli abati della comunità. In definitiva, San Giusto di Susa aveva in sé tutti i caratteri del “monastero privato”, una fondazione di famiglia con la quale gli Arduinici, al culmine del loro potere politico, tentarono di porsi al vertice di un sistema ecclesiastico locale da loro inteso quale strumento per confermare il proprio ruolo di dinastia nell’ambito della marca torinese.
Nei tre secoli successivi, i benedettini di San Giusto, prendendo le mosse dalla vasta base patrimoniale a loro disposizione, ottennero una serie di privilegi regi e pontifici che ne confermarono l’autonomia e l’immunità dei possedimenti. Consapevole dal proprio ruolo politico ed economico lungo la “via di Francia”, gli abati di San Giusto istituirono numerosi rapporti di tipo vassallatico-feudale con le più eminenti famiglie della Valle e soprattutto con i conti di Savoia-Moriana, eredi del potere della dinastia arduinica. Ma i crescenti interessi mondani e la strettissima vicinanza ai nuovi conti (richiedenti ingenti prestiti con Amedeo III) spinsero il cenobio verso una crisi economica che dai primi del Duecento perdurò sino al XIV secolo (Casiraghi 2005, pp. 32-33).
L’abbazia di San Michele della Chiusa
L’abbazia di S. Michele della Chiusa è stata fondata tra il 983 e il 987, dietro la spinta di più forze convergenti. Primo animatore dell’iniziativa fu Ugo di Montboissier, aristocratico della regione transalpina dell’Alvernia ed esponente di un ceto culturalmente attratto dal prestigio e dalle mete religiose della penisola italiana, in sintonia con lo spirito riformatrice impresso all’Europa post-carolingia da centri monastici come Cluny, capaci di attirare su di sé gli interessi delle élites dominanti, influenzando così la vita intellettuale e civile dell’intero continente. All’azione del nobile alverniate fece da corollario il sistematico reclutamento di abati e monaci in Aquitania, Alvernia e nel Tolosano. Ben presto la neonata fondazione divenne un punto di sosta per pellegrini di alta estrazione sociale e la sua fama crebbe a livello internazionale. A ciò contribuirono anche la collocazione dell’edifico sulla sommità del monte Pirchiriano – allo sbocco della Valle di Susa nella pianura torinese, lungo la rotta della “via Francigena” – e la dedicazione dell’ente al culto di San Michele Arcangelo, particolarmente caro ai ceti aristocratici in armi del Medioevo, che fecero del monastero clusino il punto di sosta intermedio del pellegrinaggio micaelico da Mont-Saint-Michel in Normandia a Monte Sant’Angelo sul Gargano. La particolare scelta del Pirchiriano dovette essere influenzata dalla vicinanza, sull’antistante monte Caprasio, di una colonia eremitica guardata all’epoca con grande ammirazione. A conferma di ciò può valere la tradizione favorita dagli stessi monaci clusini e attestatasi a partire dall’XI secolo che attribuiva al più venerato fra quegli eremiti – San Giovanni confessore, detto Vincenzo – la fondazione del cenobio. Il legame con l’eremita Vincenzo fu ulteriormente ribadito esponendo la sua tomba alla venerazione dei fedeli presso la dipendente chiesa di Sant’Ambrogio, ai piedi del Pirchiriano. In tal maniera l’abbazia attrasse a sé i flussi di un pellegrinaggio locale ampliando la propria offerta devozionale; infatti, al prestigioso soggiorno sul monte per i ricchi pellegrini, si accostava la breve sosta alle sue falde per i più poveri e i fedeli locali. Ma, andando oltre la tradizione monastica, nella realtà dei fatti a sostenere l’azione di Ugo d’Alvernia furono il marchese di Torino Arduino e il vescovo Amizone (983-998), particolarmente interessato allo sviluppo delle istituzioni monastiche della sua diocesi e ancor di più di San Michele della Chiusa, sorta in un’area dove si estendevano i confini della diocesi di Moriana e oggetto di continue e accese rivendicazioni nei decenni a venire. Dal canto loro, gli abati clusini furono da sempre impegnati nel rimarcare la propria autonomia dal potere dei vescovi di Torino, con i quali ebbero rapporti contrastati in più occasioni fra il XII e il XIV secolo.
Nonostante ciò, il cenobio clusino seppe accrescere il suo prestigio spirituale e culturale incrementando la propria biblioteca e sviluppando una sua scuola di grammatica. Mentre sul piano religioso promosse feconde collaborazioni di livello internazionale con altre illustri abbazie, come Cluny e Vézalay. A tutto ciò corrispose un forte incremento della sua presenza patrimoniale oltralpe la quale, nel complesso, venne stabilizzandosi ai primi del Duecento, con un raggio di influenza capace di irradiarsi dall’Italia del nord verso la Francia centro-settentrionale fino ai Pirenei attraverso sette abbazie, dieci monasteri, ottantotto chiese e tre cappelle comprese in diocesi d’Italia, Francia, Spagna e dell’attuale Svizzera. Tuttavia, intorno alla metà del XIII secolo l’abbazia incominciò ad avvertire i primi segni di una crisi dovuta al malgoverno dei sui abati, ormai incapaci di gestire la costruzione grande e anomala dei domini clusini, sempre più esposti alle ingerenze dei Savoia. Nel cinquantennio successivo il declino fu lento e graduale e andò di pari passo con il crescente assoggettamento del cenobio alla corte sabauda, che impose uomini di sua fiducia alla guida del monastero. Un secolo più tardi, nel 1379, l’abbazia fu ridotta in commenda e inscritta in via definitiva nella sfera d’influenza sabauda (Sergi, Bertolotto 2016).
I certosini in Valle di Susa
I monaci di San Bruno giunsero in Valle di Susa sul finire del XII secolo, insediandosi nelle località di Losa e Orgevalle, in corrispondenza degli attuali confini tra Chiomonte e Gravere. La scelta del luogo in cui la nuova comunità si stanziò rispondeva a quei requisiti di silenzio e isolamento dal mondo esterno visti come irrinunciabili dallo spirito certosino e fu possibile grazie alla donazione dei diritti sulla montagna di Orgevallis da parte di Tommaso I di Moriana nel 1189. La presenza dei monaci è poi attestata a Santa Maria della Losa nel 1191 e a partire dagli anni 1197-1198 a Montebenedetto, sulle montagne di Villarfocchiardo, nella media valle di Susa. Nel corso di Due e Trecento i vescovi di Torino garantirono ai certosini il loro perpetuo patrocinio e contemporaneamente Montebenedetto si avvalse della protezione dei conti di Savoia, che videro di buon grado l’inserimento in valle di un “nuovo” monachesimo, privo di ambizioni signorili e capace di attirare su di sé il consenso delle popolazioni locali. Il rigore con cui i certosini rimasero fedeli alle prerogative della loro fuga mundi si tradusse durante il XIII e XIV secolo in un’equilibrata gestione economica di Montebenedetto che fu capace di attirare a sé continue donazioni da parte di importanti famiglie della media-bassa valle.
Diversamente, sul finire del XV secolo, l’ente andò incontro a un grave periodo di crisi, determinato dagli ingenti danni provaci dalle piene del Rio della Sega e del Rio delle Fontane. Nella fattispecie, l’alluvione accorsa nel 1473 fu disastrosa e obbligò la comunità a lasciare Montebenedetto per costruire una nuova e adeguata dimora presso la non lontana località di Banda, ove i padri si trasferirono nel 1498 dietro autorizzazione del Priore generale della Casa Madre di Grenoble. Successivamente, il perdurare delle difficoltà economiche, spesso aggravate dalle vicende belliche che interessarono la Valle di Susa nei secoli, costrinse i certosini a trasferirsi una prima volta ad Avigliana, poi di nuovo a Banda (nel 1630), e infine a Collegno, dove rimasero dal 1642 al 1855, anno in cui la Legge Rattazzi decretarono la soppressione della comunità (Chiarle, Bertolotto 2020).
Il nuovo monachesimo dell’ultimo medioevo
La tensione eremitica e spirituale dei certosini fu solo uno dei segni di rinnovamento che interessarono la vita religiosa valsusina nei secoli in cui le prime e più illustri fondazioni – ad eccezione del priorato di Novalesa – andarono incontro a profonde crisi sia sul piano spirituale che materiale. Infatti, l’assistenza ai poveri e ai pellegrini, già garantita dai canonici regolari di Oulx e Moncenisio, trovò nuovo sostegno presso la domus hospitalis dei cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme, noti a Chiomonte dal 1173 e in seguito spostatisi a Susa per via di screzi con la prevostura d’Oulx. La nuova casa ospedaliera trovò posto presso la sponda destra della Dora – sulla direttrice per il Monginevro – lì dove sin dal 1185 era funzionante un’altra casa dei gerosolimitani. Ma altre strutture ospedaliere andavano a comporre una rete assistenziale che contava la presenza, sempre a Susa, di una casa templare e di una domus infirmorum di Antoniani, trasferitasi poco dopo il 1186-1187 a Sant’Antonio di Ranverso tra Avigliana e Rivoli. Altresì l’ingresso in valle di nuovi ordini come i francescani a Susa poco prima del 1204 e dei domenicani a Rivoli nel 1278 rappresentò una novità rispetto al passato e il segno tangibile di un monachesimo che rispondeva al deterioramento della grande tradizione benedettina ritornando al silenzio dell’eremo e coltivando l’impegno in una rinnovata vita apostolica (Casiraghi 2005, p. 33).
La Prevostura di San Lorenzo d’Oulx
La Prevostura di San Lorenzo d’Oulx sorse intorno alla metà dell’XI secolo per iniziativa del prete Gerardo, il quale, insieme ad alcuni confratelli, rinnovò l’antica pieve di S. Lorenzo, gravemente danneggiata durante il periodo delle incursioni saracene. Con la nomina di Gerardo a vescovo di Sisteron nel 1061, la guida della comunità ulcense passò a Nantelmo. Questi fu ordinato canonico della cattedrale di Torino dal vescovo Cuniberto, il quale, dopo aver trasformato S. Lorenzo in canonica riformata di S. Agostino con a capo un prevosto, consacrò ufficialmente la nascita della prevostura con una bolla datata al 30 aprile 1065. Il documento stabilì la concessione ai canonici agostiniani di tutte le chiese situate nell’alta valle della Dora Riparia e la pieve di S. Maria di Susa con i “tituli” dipendenti. Di lì a poco seguirono nuove donazioni di beni e chiese da parte dei signori di Bardonecchia, dei conti di Albon, dei marchesi arduinici e dei vescovi di Embrun e Torino. Altresì lo stretto legame con l’episcopato torinese fu confermato nei secoli a venire dal fatto che il prevosto di S. Lorenzo continuò a ricoprire il ruolo di canonico della cattedrale di Torino con diritto di partecipazione all’elezione del vescovo. Contemporaneamente la sua posizione geografica al centro dell’alta valle di Susa, insieme alla sua cospicua clientela e ai rapporti che la legavano ad altre forze ecclesiastiche e laiche, fecero di S. Lorenzo d’Oulx un centro di rilevante interesse nell’ambito della politica religiosa della contessa Adelaide, da un lato, e dei conti di Albon, dall’altro. Forte, dunque, del proprio prestigio la comunità ulcense vide accrescere le sue dipendenze sino al XIII secolo, arrivando a comprendere le chiese dell’alto Pinerolese, molte del Saluzzese e del Piemonte sud-occidentale, nonché in varie diocesi del Delfinato, della Savoia e dell’Alvernia. Questo vasto patrimonio fu notevolmente ridimensionato e limitato alle chiese dell’alta valle di Susa sul finire del Trecento, stante le forti tensioni con il vescovado di Embrun e il priorato di S. Maria Maggiore di Susa e i ripetuti attacchi e danneggiamenti da parte di vicini gruppi valdesi (Zonato 2005, pp. 47-50).
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