La cappella di Sant’Eldrado costituisce l’esempio di un edificio perfettamente integrato con il paesaggio circostante, in cui la semplicità della forma architettonica riesce ad esprimere una comunione profonda tra l’uomo e il creato. Tale aspetto è confermato dal ciclo pittorico posto all’interno dell’edificio, prova di un equilibrio ricercato e compiuto tra sapienza teologica, sensibilità monastica, speculazione filosofica, tecnica artistica e devozione popolare. Qui ogni potenziale conflitto tra il mondo di coloro che pensano e quello di coloro che fanno è superato attraverso un’architettura che riesce a proporsi quale spazio generativo per la Salvezza dell’anima e del corpo degli uomini (Montanari, Bigalli 2020, pp. 21-23).
La ricerca di una perfetta comunione tra spirito e corpo, alla luce del Verbo incarnato e dell’alto esempio dei santi, trova spazio nello stretto connubio espresso in forma pittorica tra la parola scritta e il gesto raffigurato. La cultura elitaria della scrittura, propria del mondo dei chierici medievali, si fonde con la cultura più popolare del gesto, in un contesto codificato e ordinato secondo i dettami della tradizione liturgica. Infatti, se da un lato la scrittura ha la funzione di descrivere con puntualità contenuti e personaggi delle scene per il pubblico dei dotti, dall’altro lato le vite dei santi campite sulle pareti, espongono un campionario di gesti di carità e pentimento comprensibili ai più quali esempi di come l’uomo possa costruire la propria via verso la Salvezza secondo una continua dialettica tra corpo e anima. I gesti suggellano le gerarchie sociali e morali, i termini di un insegnamento dottrinale che non si può discutere e il senso di appartenenza a un insieme di valori che si concretizzano nella vita monastica condotta in gruppo.
Le valenze socio-culturali che accompagnano i gesti nell’Età di mezzo sono la più chiara espressione di una società non ancora completamente permeata dalla scrittura e pertanto estranea alle sottigliezze e alle capacità di astrazione a essa connesse. Quali figli del loro tempo, gli uomini che progettarono e realizzarono le pitture di Sant’Eldrado erano pienamente consapevoli dell’importanza dei gesti, intesi non solo come strumenti per dare “voce” ai moti interiori dell’anima, ma anche quali espliciti riferimenti a una disciplina del corpo e a un’educazione specchio delle virtù morali (Schmitt 2021, p. 25).
Gesti, posture e movenze concorrono quindi a una forma di para-linguaggio che anima i corpi, definisce le relazioni tra i soggetti coinvolti (umani e divini), e scandisce lo svolgersi del racconto agiografico. Una sintesi di tutto ciò si trova nelle pitture del catino absidale, fulcro dell’intera composizione e primo riferimento per l’osservatore. La frontalità del Pantocratore, l’insistita espressività del viso e dello sguardo, unite al gesto della mano levata trovano un loro referente fondamentale nell’arte tardo-antica e nel modo in cui veniva rappresentato il potere imperiale, nella sua accezione divina (Schmitt 2021, pp. 40-41). L’immagine dipinta, fissa per sua natura, rafforza il primato ideologico dell’immobilità, della dignità della posa, che è qui sinonimo di una solennità in grado di trascendere ogni tempo. Inoltre, la continuità dello sguardo di Cristo su di noi vuole alludere a un monito perenne, a un rapporto con il Divino che non si estingue e al quale si accompagna la Sua benedizione.
Nel gesto del Pantocratore, in particolare, il fedele incontra la Grazia trasmessa da Dio, una sorta di passaggio verso la trascendenza, nonché un punto mediano tra questo mondo e una dimensione altra verso la quale tendono gli sguardi degli astanti.
Dallo scisma fra Chiesa d’Occidente e Chiesa d’Oriente, consumatosi nell’XI secolo, si diffusero due diversi modi di impartire la benedizione. Il primo, adottato nella Chiesa latina, consiste nel tenere dritti il pollice, l’indice e il medio e nel piegare le altre dita, con il palmo rivolto in avanti. Il gesto, in uso ancora oggi, risponde a una precisa interpretazione simbolica: le tre dita distese simboleggiano la Trinità (Padre, Figlio e Spirito Santo). Nella Chiesa ortodossa, invece, la posizione delle dita vuole formare il monogramma in lettere capitali greche per Gesù Cristo (IC CX) secondo il seguente codice: I (indice disteso), C (medio ricurvo), X (pollice e anulare incrociati), C (mignolo ricurvo), così come lo si vede in Sant’Eldrado, prova evidente – fra altre – di come l’atelier qui intervenuto fosse influenzato da modelli di matrice bizantina (Morris 2020, pp. 56-57).
Al gesto del Pantocratore fanno poi eco le posture, le movenze e la resa dimensionale dei personaggi più vicini, ritratti secondo una chiara composizione piramidale, tesa a sottolineare le gerarchie tra le parti. E così al ruolo apicale occupato dal Divino si affiancano: la corte mediana degli arcangeli, che in abiti sacerdotali rivolgono preghiere di perdono al Salvatore, indicandoci la via per la Salvezza (Bussagli 2010, p. 33); le figure stanti di Nicola ed Eldrado, con il primo che reca il libro delle Sacre Scritture e il secondo la Regola benedettina, a significare il loro ruolo di testimoni di Fede; e, infine, i corpi chini a terra dell’abate Adraldo (presso sant’Eldrado) e di un altro monaco (presso san Nicola), colti nel gesto più estremo di subordinazione che un individuo potesse assumere dinanzi a una figura dominante. La prosternazione, infatti, era la forma di saluto più remissiva e reverenziale riconosciuta dal mondo medievale (Morris 2020, pp. 32-34; 40-42), tuttavia qui il gesto dei due può essere letto come l’espressione sincera e contrita di due oranti, pronti a mortificarsi nel corpo dinanzi a Dio, in quanto umili peccatori, che a differenza di Nicola ed Eldrado, non sono degni di “stare in piedi” dinanzi a Cristo (Zallot 2018, p. 133).
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