Il complesso monastico novalicense si pone in un’area relativamente pianeggiante, propaggine del gruppo dell’Ambin, dalla quale si domina la Valle Cenischia e il tratto di strada che da Susa porta al Moncenisio. L’accesso al cenobio avviene da nord, grazie a una carrozzabile che costeggia la base della montagna. 

Fulcro del sistema monastico è la chiesa abbaziale, a essa si affiancano il chiostro e gli spazi d’ambito del cenobio, posti verso sud. Nella stessa direzione, all’interno nel recinto abbaziale vi sono tre cappelle (S. Salvatore, S. Michele e S. Eldrado). Di contro, a circa centocinquanta metri dalla chiesa, verso l’estremità settentrionale del pendio, si trova il sacello di S. Maria.

La chiesa abbaziale, qui preceduta da un ampio cortile quadrangolare, mostra una facciata a salienti rivestita nella sezione centrale da un’evanescente decorazione pittorica (sec. XVIII), che con un attento trompe l’oeil finge un’elegante ornamentazione architettonica comprendente l’effige di Sant’Eldrado in una nicchia. Presso l’angolo sud-orientale della fabbrica si erge un possente campanile (inizio sec. XVIII) a pianta quadrangolare, coperto da quattro spioventi in lose e bucato da semplici monofore all’altezza dell’ultimo livello. All’interno lo spazio liturgico si articola in un’unica navata terminante, verso est, in un profondo presbiterio absidato. La zona per i fedeli è sormontata da volte a botte unghiate ed è affiancata da quattro cappelle – due per lato – voltate a tutto sesto. L’area dell’altare maggiore, invece, è coperta da una volta a botte lunettata e comunica con due ambienti di dimensioni diverse, verso nord, e con un ampio vano che consente il passaggio dal presbiterio (o dalla cappella sud-orientale) al chiostro.

Gli scavi archeologici svolti all’interno della chiesa ne hanno svelato l’originario impianto a navata unica, con quattro ampie cappelle laterali e un profondo presbiterio absidato, fiancheggiato a nord da due ambienti di dimensioni diverse e a sud dal campanile e da un ampio vano che metteva in comunicazione il presbiterio e la cappella sud-orientale con il chiostro. A nord si trovava un altro annesso, con un lato allineato alla facciata della chiesa, mentre presso il setto perimetrale sud era collocata una tomba a cassa in muratura, di forma leggermente trapezoidale, con le pareti e il fondo in mattoni: presumibilmente quella del fondatore Abbone. Sul lato occidentale, invece, si apriva uno spazio porticato con sostegni in legno. All’inizio del sec. IX, il coro quadrangolare fu sostituito da un’abside semicircolare e il presbiterio fu ampliato verso est; parimenti un avancorpo di una certa altezza, a destinazione funeraria, fu addossato alla facciata della chiesa. Dalla seconda metà del sec. XI, con il ristabilirsi dei benedettini sotto la guida di Bruningo, la chiesa abbaziale fu ristabilita nelle sue funzioni e ampliata secondo un assetto a tre navate scandite da pilastri con copertura a capriate, celate verso la metà del Trecento da volte a crociera costolonata, mentre al termine della navata sinistra fu eretto un campanile absidato accessibile dalla chiesa (Rossignani, Baratto, Bonzani 2009, p. 199).

All’inizio del presbiterio, sulla sinistra, si nota il lacerto di un affresco (sec. XV) da cui affiora il profilo di tergo di un putto campito su un indefinito fondo amaranto e, poco sopra, i piedi e le mani di un secondo fanciullo aggrappato ad un festone vegetale. A breve distanza emergono i resti di un antico sacello affrescato con il Martirio di Santo Stefano. La cappella è stata identificata dalla critica con quella della Santissima Trinità e dei Santi Stefano e Lorenzo, ricordata ancora nel 1644 come fundata in medio ecclesie abbatialis ex parte bisie intrando in choro ipsius ecclesie. Di fatto, si trattava di un piccolo vano quadrangolare addossato alla fine del sec. XI secolo all’estremità settentrionale del tramezzo che un tempo separava il coro dall’aula di preghiera.

La parete dipinta – riscoperta nel 1975 – si trova a una quota inferiore rispetto all’odierno piano di calpestio e traduce in pittura il noto passo degli Atti degli Apostoli in cui si legge: «Ma Stefano, pieno di Spirito Santo, fissando gli occhi al cielo, vide la gloria di Dio e Gesù che stava alla sua destra e disse: “Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio”. Proruppero allora in grida altissime turandosi gli orecchi; poi si scagliarono tutti insieme contro di lui, lo trascinarono fuori della città e si misero a lapidarlo. E i testimoni deposero il loro mantello ai piedi di un giovane, chiamato Saulo. E così lapidarono Stefano mentre pregava e diceva: “Signore Gesù, accogli il mio spirito”. Poi piegò le ginocchia e gridò forte: “Signore, non imputar loro questo peccato”. Detto questo, morì» (At. 7, 55-60).

Un tratto netto e fortemente espressivo pone l’accento sui particolari più patetici (come le ferite che grondano sangue) e descrive l’evento come in un fermo immagine, in cui ogni gesto appare sospeso e fissato secondo una calcolata composizione. L’episodio è coronato da un trancio vegetale piegato a cuore, al di sopra del quale sopravvive parte dell’imposta della volta a crociera che doveva sovrastare il sacello. Lungo il costolone si conserva un frammentario motivo a doppia greca in prospettiva, mentre sull’unica vela superstite si scorge parte dell’aquila di San Giovanni con il Vangelo tra gli artigli, ultima prova di un perduto Tetramorfo. Verso destra permane l’imposta di un arco a botte con la parte bassa di due figure scalze (angeli o apostoli?), con indosso lunghe vesti animate da pieghe frastagliate. L’opera si deve a un anonimo maestro di cultura lombarda attivo alla fine del sec. XI e vicino ai modi del frescante intervenuto in Sant’Eldrado (Gentile 2004, p. 76). 

Sulla stessa parete del presbiterio corre una più alta decorazione ad affresco, dove dinanzi ad un finto spazio porticato coperto da crociere si susseguono vari Santi Benedettini (alcuni rimasti incompiuti) a figura intera. Alle loro spalle si nota un fondale chiuso da un tessuto damascato in ocra e rosso, mentre in primo piano si dispone uno steccato costruito, con pali e assicelle, sopra una base da cui pende un drappo a bande rosse, ocra e blu, sorretto da ganci. La composizione sembra ricalcare la scena di una sacra rappresentazione, qui dedicata alla celebrazione dell’Ordine benedettino, mostrando i santi in dialogo tra loro «con volti fortemente caratterizzati a guisa di realistici ritratti» (Gentile 2004, p. 81). Il ciclo è stato ascritto al tolosano Antoine de Lonhy, riferendone l’esecuzione ai primissimi anni Ottanta del sec. XV e la committenza all’allora commendatario Giorgio Provana.

Al priorato di Ubertino Borello da Moncalieri (1452-1457), invece, spetta il riquadro – ora mutilo – posto sulla stessa parete in alto a destra. Il frammento rappresenta il Borello ai piedi di San Francesco e di un altro santo ed è accompagnato da un fregio vegetale ornato dal nodo Savoia col motto fert e da un’iscrizione in caratteri gotici in cui si legge: «ubertinus de moncalerio […] administrator et rector».

Sul lato opposto del presbiterio, una piccola porta conduce verso l’ultima campata della navatella destra della chiesa d’età gotica. L’ambiente – più tardi destinato a sacrestia – conserva un corredo di affreschi attribuiti al de Lonhy e datati ai primi anni Settanta del Quattrocento. La decorazione pittorica ornava un sacello dedicato alla Vergine, di cui le fonti ricordano la fondazione voluta da Giorgio Provana. Lungo il sottarco d’ingresso si vedono le figure di quattro Profeti annuncianti l’elezione e la gloria di Maria quale madre del Verbo incarnato. Ogni figura si affaccia da una nicchia ad arco trilobo, tratteggiata su fondali alternativamente rossi e gialli. Sulla sinistra si nota un primo Profeta con un copricapo bianco e un cartiglio recante «maria in celum». Al di sotto si riconosce Isaia, con manto arancio, barba e capelli canuti, che mostra l’iscrizione «ecce maria genuit nobis salvatorem». Di fronte permangono una terza figura quasi evanescente e un ultimo Profeta con indosso un’elegante tunica arancio con maniche verdi e un largo cappuccio. In basso si nota una finta colonna segnata da ampie scanalature oblique, alla quale doveva corrispondere specularmente un’analoga rappresentazione. Da presso, sulla parete sud, si vedono altri quattro Profeti: due sugli sguanci della finestrella e due ai lati della stessa. Tra tutti, solo Malachia (sullo sguancio destro) è stato riconosciuto per la scritta: «statim veniet ad templum suum dominatori». Sulla volta la pittura descrive i fastigi di un’architettura flamboyant aperta verso un cielo stellato con al centro un disco solare attorniato da dodici raggi (simboleggianti gli Apostoli), nel quale probabilmente era contenuto il monogramma di Cristo (ihs). Sull’altare della cappella – rimosso durante le ristrutturazioni settecentesche – era collocata un’ancona lignea in cui erano incassate alcune formelle in alabastro dipinto e dorato dedicate alle Storie della Vergine, opera di una bottega inglese della seconda metà del Quattrocento. Attualmente del gruppo si conoscono due frammenti di un’Adorazione dei Magi in collezione privata, una perduta Crocifissione già nella raccolta segusina di Felice Chiapusso, l’Incoronazione della Vergine conservata al Museo Civico d’Arte Antica di Torino e l’Assunzione, esposta dal 2003 presso il Museo Diocesano d’Arte Sacra di Susa (Gentile 2004, p 82).

Passando oltre si giunge nel chiostro. Intorno allo spazio aperto, porticato sui lati orientale e settentrionale, si sviluppano quattro ali asimmetriche: l’ala nord, conta un piano terreno porticato con un vano retrostante e un piano superiore scandito da una serie di ambienti giustapposti; l’ala est, anch’essa su due piani, si articola in una serie complessa di stanze, in un ampio scalone centrale che mette in comunicazione i due livelli e in un’alta galleria affacciata sul chiostro e comunicante con l’ala sud. Quest’ultima, conserva lungo la zoccolatura esterna solo l’impronta delle arcate del portico originario e s’innalza per tre piani, prolungandosi con una manica di notevole sviluppo verso est. L’ala ovest, infine, si dispone su tre livelli, presentando un robusto contrafforte su quasi tutta la sua lunghezza. Sull’altro lato invece le si addossa un corpo a due piani affacciato su un cortiletto chiuso a nord e a sud da due maniche di diversa altezza e a ovest da un basso fabbricato degli inizi del Novecento. «Questo complesso è il risultato degli interventi operati a partire dall’inizio dell’XI secolo, a seguito del ritorno della comunità dopo il lungo abbandono dei decenni centrali del X secolo, e di una lunga serie di trasformazioni strutturali e funzionali dei secoli successivi, che hanno modificato in misura diversa le singole componenti, senza alterare l’impianto generale» (Cantino Wataghin 2004, p. 46). Nel chiostro e negli ambienti vicini si rintracciano diverse testimonianze figurative più o meno estese, risalenti a epoche diverse. 

Sotto il portico dell’ala nord si trova una lunetta affrescata sopra la tamponatura di un arco a ferro di cavallo. La superficie dipinta mostra un Cristo in maestà racchiuso in una mandorla, con a destra Sant’Eldrado e una certa Clara e a sinistra la figura mutila di un santo (?). Al di sotto del cuscino suppedaneo del Cristo si intravede il fianco di una costruzione e un’iscrizione di cui si indovinano le parole «terre montesque tremescunt». Tale indizio ha suggerito l’ipotesi che l’affresco si riferisca al terribile terremoto che colpì in particolare l’Italia settentrionale nel 1117 e agli interventi di ristrutturazione promossi alla Novalesa da una benefattrice (la suddetta Clara) in seguito alla catastrofe. La donna, infatti, sembra ritratta nell’atto di offrire con un braccio teso il suo dono (una cappella?). L’immagine è stata attribuita a un pittore di cultura lombarda, capace di una grande eleganza grafica e riconducibile al quarto decennio del sec. XII (Segre Montel 1994 b, pp. 274-275).

Sulla parete esterna che delimita il chiostro verso ovest resta il lacerto di un motivo con stemmi inscritti in quadrilobi con un’alta fascia a volute vegetali. La stessa decorazione ritorna nel piccolo vano posto alla medesima altezza nel sottotetto della manica settentrionale. Probabilmente in origine si trattava di un’unica parete interna di un ambiente in seguito ridimensionato. Attualmente lo spazio è definito Camera degli Stemmi e vi si riconoscono scudi sabaudi alternati a quelli della famiglia Aschieri. La partitura decorativa doveva essere completata da un velario e da altre armi gentilizie di famiglie legate al cenobio. Un confronto con cicli analoghi (vedi il Ciclo dei Mesi dell’ex Casa dei canoni di S. Maria Maggiore o la facciata del Palazzo della Pretura di Susa), la tipologia del fregio vegetale e la presenza degli stemmi sabaudi hanno consentito di datare l’opera ai tempi di Amedeo V (1285-1328), sotto la cui giurisdizione e protezione era posto allora il monastero (Bertolotto 2004, p. 91 e 106).

Al di là della Camera degli Stemmi, al primo piano del corpo di fabbrica che delimita il lato destro del sagrato, si susseguono quattro stanze un tempo adibite ad appartamento per l’abate. Da est verso ovest s’incontrano: lo Studiolo, che conserva la traccia frammentaria di un fregio composto dall’intreccio di rami fogliati delimitato da due fasce con quadrilobi (secc. XIII-XIV ); la Camera delle Rose, in cui la pittura simula un raffinato graticcio, su fondo bianco, percorso da rose con al di sopra una fascia a girali vegetali, dove si vedono le zampe di un animale in corsa (secc. XIII-XIV); il Salone Carlo Magno, dominato dal camino seicentesco, sulla cui cappa si scorge un disegno a sanguigna (metà del sec. XVII) raffigurante a destra lo stemma dei Provana e una cometa e a sinistra il sole nei tre momenti della giornata (come ipotizzato da don Daniele Mazzucco). In più, sul lato opposto resta una monofora tamponata con gli sguanci ornati a finti conci blu e gialli contornati di rosso e divisi da strisce bianche a imitazione della malta (secc. XIII-XIV); da ultimo, resta la Camera Stellata, le cui pareti mostrano un cielo stellato con archetti pensili trilobati in alto e un recinto con velario in basso (secc. XIV-XV). Inoltre, sul muro settentrionale si notano una finestrella tamponata, ornata negli sguanci da un finto marmo giallo maculato in rosso e arancio (secc. XIII-XIV) e un decoro a dentelli mistilinei, seguito da una fascia a girali (secc. XIII-XIV).

Al piano terra dell’ala meridionale del chiostro è stata recentemente recuperata l’ampia sala rettangolare dell’antico refettorio. Il vano è illuminato da sud tramite una serie di monofore strombate. Lungo la parete settentrionale del salone affiora una decorazione a monocromo rosso raffigurante un cavaliere che colpisce con la lancia una tigre (secc. XII-XIII), mentre sul lato orientale della stanza si dispongono alcune scene affrescate assai lacunose e abrase (inizio sec. XIV). Da sinistra verso destra s’individuano due figure, una stante con veste grigia e mantello giallo e una forse seduta, frammenti di paesaggio con case, una sinopia con un uomo inscritto in un medaglione, un monaco inginocchiato e due altri religiosi in piedi, il tutto sottolineato da un finto drappo sorretto da ganci affissi su una base a fasce ocra e rosse (Bertolotto 2004). 

Passando poi nel parco posto a sud del cenobio, è possibile visitare le restanti cappelle del complesso. A una distanza maggiore si trova il sacello di Sant’Eldrado. La costruzione, fondata nel sec. IX e ricostruita tra i secoli X e XI, conta un’unica aula preceduta da un breve spazio porticato (sec. XVII) e una più bassa e stretta abside semicircolare. Ciottoli appena sbozzati e disposti in regolari filari orizzontali compongono la tessitura muraria esterna, decorata nella parte absidale da un’alta cornice ad archetti pensili a tutto sesto, quattro lesene pronunciate e tre monofore fortemente strombate. Gli scavi archeologici all’interno dell’edificio hanno messo in luce i resti dell’originario abside quadrangolare (soluzione tipica nell’area alpina; Lomartire 2007; Tosco 2016, p. 45) e i resti di una coeva tomba a cassa con le pareti rivestite in cocciopesto. La posizione della sepoltura al di sotto dell’altare, insieme all’attenta tecnica esecutiva, lasciano supporre si tratti dalla tomba dell’abate Eldrado (Rossignani, Baratto, Bonzani 2009, p. 201).

All’interno, il corpo dell’edificio è scandito in due campate (la prima a crociera, la seconda a botte), inframmezzate da un arco trasversale a tutto sesto e interamente percorse da una decorazione ad affresco. Lo spazio è dominato dalla ieratica compostezza del Pantocratore del catino absidale, qui inscritto in una mandorla affiancata da due figure angeliche (Michele a sinistra e Gabriele a destra). Cristo siede su un trono tempestato di gemme e il suo volto è incorniciato in un nimbo crociato, che lo indica come luce del mondo (Gv. 8, 12). La veste color porpora che indossa è espressione della sua divinità, mentre il manto azzurro che lo ricopre solo in parte allude all’umanità dalla quale la divinità a un tempo è celata e traspare. Più in basso, inseriti tra le finestrelle, vi sono San Nicola in paramenti episcopali, a sinistra, e Sant’Eldrado in saio scuro, a destra. Sotto di loro sono inginocchiati rispettivamente un monaco e Adraldo di Breme.

Nella campata più vicina all’altare si sviluppa un ciclo dedicato alle Storie della vita di San Nicola. La sequenza prende avvio dalla volta, segnata al centro da un Agnus Dei. In senso antiorario si susseguono quattro scene: Nicola che rifiuta il seno materno nel giorno del venerdì; Nicola che porta un sacco di denari al ricco mercante caduto in disgrazia, per risollevarne la sorte delle figlie destinate alla prostituzione; l’Elezione di Nicola come vescovo di Mira; e la Consacrazione episcopale del santo. Da ultimo, sulla parete di sinistra è ritratto l’Intervento miracoloso di Nicola in favore di tre ragazzi destinati a morire per decapitazione, mentre sul lato opposto si vede San Nicola che appare ai naviganti. Questi si stanno recando al suo sepolcro e il santo li induce a buttar via l’olio pestifero offerto loro da Diana, qui raffigurata nelle sembianze di una bella donna con abito bianco e copricapo giallo. Il presule, infatti, durante la sua vita terrena si era impegnato a debellare il culto della divinità pagana dalla città di Mira. Nella campata seguente si trova un secondo ciclo incentrato sulle Storie della vita di Sant’Eldrado. Sulla chiave di volta campeggia la Colomba dello Spirito Santo, mentre nelle vele si riconoscono in ordine cronologico: Sant’Eldrado che coltiva la terra, presso il paese natale di Ambillis; Sant’Eldrado che parte per un lungo pellegrinaggio, ricevendo un bastone e una bisaccia da un sacerdote; Sant’Eldrado che dopo un lungo peregrinare giunge presso l’abbazia di Novalesa; e Sant’Eldrado che riceve dall’abate Amblulfo l’abito monastico. La serie continua sulle pareti con, a destra, Sant’Eldrado che libera il monastero fondato a Le Monetier les Bains dalle serpi, imponendo loro di ritirarsi in una zona disabitata, e a sinistra, la Morte di Sant’Eldrado, dove uno dei confratelli accorso al capezzale del monaco porge al moribondo l’ultima ostia consacrata, mentre dall’alto discende un raggio di luce – simbolo della presenza di Dio – che si posa sul volto del santo.

In controfacciata, al di sopra dell’ingresso, si scorge un Giudizio Universale, in cui appaiono i simboli della Passione di Cristo affiancati da due angeli tubicini, che col suono delle loro trombe ridestano le anime dei morti. L’intera decorazione è poi completata da fregi vegetali sagomati a cuore o disposti a mo’ di festone, greche in prospettiva, pseudo semicolonne in porfido con capitelli fogliati e uno zoccolo rivestito da finte lastre a marmi policromi (Uggé 2012, pp. 28-29).

Per Costanza Segre Montel l’esecuzione del ciclo fu coincidente al passaggio in abbazia, tra il 1096 e il 1097, della reliquia del dito di S. Nicola e fu commissionata dall’abate Adraldo di Breme a un atelier d’ambito lombardo capace di soluzioni analoghe, per esempio, agli affreschi dell’oratorio di San Pietro al Monte di Civate, in provincia di Como. Qui, però, ogni elemento si caratterizza per una densa stesura cromatica che marca figure, architetture e paesaggi di sfondo e che accentua contorni e passaggi chiaroscurali (Segre Montel 1994 b, pp. 273-274).

A breve distanza da Sant’Eldrado, si trova la cappella del Salvatore. La fabbrica, fondata già in età altomedioevale e ricostruita nel sec. XI, è formata da una profonda aula rettangolare sormontata da due crociere impostate su semicolonne e termina in una più bassa e stretta abside orientata. Verso nord è preceduta da un vano quadrangolare con risalti angolari e i fianchi scanditi da lesene aggettanti a mezza altezza. La struttura prova l’originaria esistenza di una torre annessa al sacello, ma la sua destinazione resta oscura (campanile?, torretta difensiva?, o dimora degli abati?). Lungo i lati della cappella e al di sotto del cornicione absidale, infine, corre una teoria di archetti pensili in laterizio, interrotta in più punti da pronunciate lesene. All’interno, sopravvivono solo brevi lacerti dell’antica decorazione medioevale (fine sec. XI). Di fatto, presso il catino absidale s’intravedono un piede nudo (forse di un angelo), verso sinistra, e un frammento di mandorla (certamente di un Cristo in maestà), alla sommità della conca. Lungo l’arco trionfale, invece, si scorge un festone vegetale uscente da un vaso, sorretto da una colonna di finto marmo verde venato di bianco (Cantino Wataghin 2004, pp. 38-40).

Alle spalle della cappella del Salvatore, al di sopra di un leggero rialzo, s’incontra il sacello di S. Michele (secc- VIII-IX), composto da un corpo quadrangolare unito verso est a una scarsella. L’esterno mostra una particolare ornamentazione a finte finestre (rettangolari o ad arco) in facciata, lungo il fianco settentrionale e sul prospetto orientale. All’interno, invece, gli ultimi restauri hanno riportando alla luce gli affreschi d’età medioevale (fine sec. XI-inizio sec. XII) prima nascosti da una scialbatura seicentesca. In particolare, in coincidenza dell’altare si notano un velario aniconico (segnato da pieghe a V e ricami a losanga, al di sopra del quale corre una lacunosa iscrizione in lettere capitali disposta su quattro file sovrapposte alternativamente rosse e bianche) e le sagome di cherubini rivolte verso l’immagine centrale di un San Michele pesantemente ridipinta nel corso dei secoli.

Infine, si segnala la cappella di Santa Maria (sec. VIII), la più lontana dalla chiesa abbaziale. Vista in pianta presenta un’aula rettangolare e una scarsella orientata, abbastanza profonda. Un doppio spiovente in lose impostato su capriate copre il corpo principale, segnato sui fianchi esterni da coppie di archetti (secc. XI-XII), a cui si aggiungono le semplici specchiature a tutto sesto dell’abside. Lo spazio interno è rivestito da una semplice intonacatura bianca, che in più punti conserva labili tracce di una decorazione purpurea (sec. VIII), che segnava – tra le altre cose – le croci della consacrazione. Sul piano figurativo rimangono soltanto due riquadri affrescati nel Quattrocento sulla parete di fondo e sul lato sinistro dell’abside. Nel primo caso si riconosce l’elegante immagine di Maria Maddalena con i lunghi capelli sulle spalle e il vaso di unguenti profumati tra le mani. Nel secondo si vede Santa Maria Egiziaca, ritratta tra due quinte rocciose come penitente, con i lunghi capelli che le ricoprono il corpo.

Ulteriori raffigurazioni ad affresco si conservano nei depositi dell’abbazia e presso il neonato Museo Archeologico allestito nell’antico refettorio del cenobio. Nella fattispecie si tratta di circa diecimila frammenti di dimensioni medio-piccole, recuperati durante un trentennio di restauri. Tra i pochi lacerti oggi esposti si riconoscono tracce pittoriche riferibili alla prima fase decorativa dell’abbazia (sec. VIII), alla Lapidazione di Santo Stefano (fine sec. XI), al cenobio di età romanica e gotica, alla teoria di Santi benedettini del presbiterio e ai soggetti realizzati dal de Lonhy nella cappella Provana.

Ad oggi, l’abbazia dei Ss. Pietro e Andrea continua ad essere oggetto di restauri e indagini archeologiche, al fine di colmare le lacune ancora aperte intorno alla storia di uno dei siti monumentali di maggior rilievo per la Valle di Susa e l’arco alpino occidentale. 

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