Sino alla Regola di Benedetto, la scrittura in ambito monastico è equiparata alle altre attività manuali svolte dai monaci e il manoscritto è soprattutto un mezzo di sostentamento e una merce di scambio, realizzato in spazi non ancora organizzati per un’attività coordinata di manifattura libraria. I pochi libri presenti fra le mura della clausura sono limitati alle Sacre Scritture e riposti in fenestra (nicchie) o armaria usati per riporvi anche altri utensili, oppure – come indicato nella Regula Magistri – fogli di pergamena ancora intonsi e documenti, secondo una prassi poi comune nell’Alto Medioevo che porrà in strettissima connessione lo scriptorium, la biblioteca e l’archivio (Cavallo 1987, pp. 331-333).
A partire dal VII secolo, dopo le distruzioni della prima età longobarda che destabilizzarono gran parte degli insediamenti monastici d’Italia, la lenta opera di riorganizzazione del monachesimo d’Occidente passò per l’accettazione della scrittura e del libro, non solo come strumenti di sostentamento ed edificazione, ma quali forme di sapere da veicolare. Scomparsa ormai la scuola antica, quella monastica ne prese il posto, accanto a quella vescovile ed ecclesiastica, legandosi alla presenza di uno scriptorium e di una biblioteca.
Persa la sua unica valenza materiale, l’attività di trascrizione e di manifattura del libro divenne una “pia penitenza”, attraverso la quale il monastero – avviato verso la formazione di vere e proprie abbazie signorili – consolidava il proprio ruolo sociale, politico ed economico e maturava un diverso approccio verso la cultura scritta, si trattasse di libri (ormai intesi beni patrimoniali, oltre che strumenti del sapere), o di documenti, garanzia di diritti, possessi e dipendenze (Cavallo 1987, p. 352).
Fra VII e XII secolo la produzione del libro era tutta interna al monastero. Monaci educati all’arte dello scrivere lavoravano in un apposito (e spesso assai ampio) locale, lo scriptorium, in numero che variava in base all’importanza riconosciuta alla loro attività, alle esigenze della comunità e alle committenze esterne (per lo più monastiche o ecclesiastiche). Nelle realtà più strutturate ed eminenti il lavoro degli amanuensi poteva uniformarsi a precise norme grafiche ed estetiche imposte da un maestro o da una prassi locale, distinguendo così una “scuola scrittoria” dall’altra (Cavallo 1987, p. 353).
La manifattura del libro iniziava con la preparazione della pergamena, adoperando di norma pelli di vitelli, pecore, capre giovani o nate da poco (data la loro elasticità), o addirittura di feti nel caso di libri pregiati. Una volta macellato l’animale, la pelle veniva immersa in un bagno di acqua e calce, tesa su di un telaio e ripulita dalle scorie sui due lati (peli e carne), per poi essere ulteriormente levigata con pietra pomice. Seguiva la riduzione della pelle in fascicoli, i quali venivano rigati usando un legnetto appuntito guidato da una sbarra, o strumenti metalliche che prendevano a riferimento una serie di forellini praticati a distanze regolari lungo i margini. La rigatura definiva lo spazio destinato alla scrittura, i margini e il campo per le decorazioni. Man mano che la trascrizione del testo procedeva, le pagine venivano numerate, o segnate con appositi rinvii, per essere poi correttamente rilegate fra piatti di legno ricoperti di cuoio o, nei casi più ricercati, fra piatti in avorio, argento e oro tempestati di gemme. L’esito finale era il codice, forma tipica del libro medievale (Cavallo 1987, pp. 353-354; Barbier 2018, pp. 64-68).
La scrittura veniva eseguita appoggiando il supporto su un ripiano più o meno inclinato e tramite un calamo (canna o penna di volatile temperati). La trascrizione poteva essere eseguita da uno o più scribi che si alternavano o che vergavano contemporaneamente fascicoli diversi coordinati da un maestro. Lo stesso scriba eseguiva anche le decorazioni più semplici, mentre quelle più articolate e i motivi figurati erano opera di decoratori e artisti specializzati. La realizzazione di un testo poteva durare da alcune settimine ad anni in base alla complessità dell’opera. Le scritture in uso nella prassi libraria monastica dell’Alto Medioevo spaziavano dall’onciale e semi-onciale di antica tradizione, alle scritture longobarde derivate dalla corsiva nuova latina (come la minuscola di Nonantola), alle forme tipiche dell’Italia meridionale (come la “beneventana”), alla minuscola carolina, approdando verso la fine del sec. XII alla scrittura gotica (Cavallo 1987, p. 354; Petrucci 2006, pp. 61-137).
Fino a tutto il sec. XII la biblioteca si accompagna allo scriptorium non nella forma di spazio per la lettura e la consultazione, ma nella foggia di armaria (a volte posti in ambienti separati e di ragguardevoli dimensioni) preposti alla sola conservazione e sottoposti al controllo di un bibliotecario. Questi nella maggior parte dei casi sovraintendeva anche all’archivio e all’insegnamento della dottrina e del canto liturgico, assolvendo al ruolo di praecentor.
Oltre ai libri prodotti dallo scriptorium, la biblioteca monastica poteva accogliere anche donazioni, lasciti e acquisizioni di vario carattere, costituendo un corpus composito determinato dagli interessi e dallo zelo di abati, bibliotecari, monaci colti e protettori facoltosi. Insieme alle Sacre Scritture, una parte prevalente delle biblioteche era occupata dalla letteratura patristica, dai testi liturgici, da scritti di diritto canonico e civile, storia ecclesiastica, cronistica, testi conciliari, raccolte grammaticali e manuali scolastici. A tutto ciò, sin dal sec. VII si sommarono gradatamente le trascrizioni di testi dell’antichità classica, che in Italia conobbero una prima diffusione a partire da centri monastici come Vivarium (Calabria), Bobbio (dove in particolare confluirono testi della tarda antichità da sedi quali Pavia, Milano, Verona e Ravenna), Nonantola, Montecassino e Farfa (Cavallo 1987, pp. 357-362).
Fra la fine del IX e quella del XII secolo il libro assume una crescente valenza patrimoniale, atta a consolidare il potere economico di una comunità religiosa e che porta alla costituzione di biblioteca sempre più consistenti da custodire gelosamente, alla stregua degli altri tesori del cenobio. Si diffondono così i primi cataloghi atti a descrivere lo stato patrimoniale della raccolta libraria, a restituire un inventario completo di autori e opere e ad accertare eventuali lacune da colmare.
Dai secc. XII e XIII il mondo monastico di scriptoria e biblioteche conobbe profondi cambiamenti per effetto della riforma cistercense e dell’avvento degli ordini mendicanti. Nel primo caso il ritorno all’austerità dell’esperienza monastica primitiva voluto dall’Ordine di Cîteaux portò alla separazione fra scriptorium e biblioteca, alla perdita di autonomia del primo, ridotto in vani adibiti a più funzioni, e alla riduzione della seconda in una o più nicchie chiuse da ante e incavate nelle pareti del chiostro. La biblioteca cistercensi si ridusse ai soli testi liturgici e a quelli necessari alle esigenze di lettura dei monaci, abituati a consultare i testi camminando nel chiostro o nella sala comune. Tale rigore si tradusse anche in una produzione libraria votate alla semplicità e alla misurata presenza di ornamenti. Fra Domenicani e Francescani, invece, il libro assunse un ruolo precipuo quale strumento basilare presso gli studia organizzati e riconosciuti presso i conventi dei due Ordini. Il libro domenicano, in particolare, coincise con il testo scolastico, posto alla base della dottrina e della predicazione. La cura e il costante incremento della biblioteca conventuale furono sentiti come prioritari e funzionali all’attività intellettuale e di predicazione, mentre la manifattura libraria fu spesso demandata a scribi esterni per non sottrarre tempo allo studio. Nel mondo francescano, invece, l’accettazione del libro fu più sofferta, in quanto inizialmente fu considerato strumento di edificazione (se letto), o opera manuale (se trascritto), ma altrimenti visto con sospetto sia per via del suo valore materiale (contrario al voto di povertà dell’Ordine), sia perché a guidare la predicazione francescana non era la dottrina, ma l’esempio. Tuttavia, con la successiva organizzazione dell’Ordine e delle sue scuole, il libro assunse un’importanza crescente, nell’accezione di strumento d’uso la cui raccolta in vaste biblioteche trovava una sua ragion d’essere nella prospettiva di una ricerca e di una disponibilità di testi necessari.
In definitiva, con cistercensi e mendicanti la presenza di scriptoria architettonicamente definiti e rigorosamente organizzati si riduce, mentre le biblioteche accrescono il loro ruolo di spazi adibiti alla sola lettura. Nasce così il modello della sala studio con libri incatenati ai banchi di lettura, a loro volta disposti in due file parallele, separate da un corridoio centrale, lungo l’asse longitudinale di un’aula oblunga. Inoltre, accanto alle aule di consultazione vi possono essere delle biblioteche “segrete”, in quanto chiuse in armadi, con libri destinati al prestito, e perciò anche dette “circolanti”.
L’importanza riservata al testo scritto non tanto come bene patrimoniale, ma quanto strumento di conoscenza si tradusse in una forma libraria compiuta, atta alla più agevole fruizione della pagina con titoli rubricati, netta distinzione tra testo e commenti, iniziali più o meno marcate e indici a corollario (Cavallo 1987, pp. 396-412).