Nello stretto legame che intercorre tra arte e fede, il dipinto d’altare riveste un’assoluta centralità, in quanto fulcro visivo (insieme al tabernacolo) della scena liturgica, della preghiera e delle pratiche devozionali legate all’intercessione dei santi. 

Nel corso del Quattrocento la Madre di Dio e il suo corollario agiografico divennero una volta ancor di più il nodo di contatto tra mondo soprannaturale e mondo naturale, figure a cui si attribuiva un potere di mediazione tra l’uomo e Dio, di protezione contro i pericoli, di guarigione dalle malattie, di liberazione dalla morte. Così la figura di Maria, quale madre, vergine e regina, e le immagini dei santi, quali martiri e predicatori, narrando della loro eccezionale condizione, furono intese dalla Chiesa come strumenti atti a richiamare alla memoria degli uomini gli insegnamenti contenuti nelle Sacre Scritture e i dogmi della dottrina, presentando altresì una loro concreta realizzazione attraverso i modelli edificanti dei santi, che la comunità credente era invitata a comprendere e imitare.

La tradizione figurativa agiografica, dunque, venne configurandosi come un “ponte” tra la realtà del personaggio santo e quella di un pubblico raccolto in preghiera, mentre di pari passo lo sviluppo del culto dei santi s’inserì in una tendenza più generale orientata verso una “personalizzazione” del sacro e una devozione più passionale e famigliare, producendo temi figurativi come la Vergine dell’umiltà o l’Uomo dei dolori con i rispettivi corredi iconografici di tenerezza e patetismo. 

Nel corso del XV secolo tali dinamiche si svilupparono in un contesto di profondi rinnovamenti in campo artistico, caratterizzato dall’abbandono delle forme del gotico internazionale in favore delle novità introdotte dall’umanesimo. Questo trapasso fu seguito dalla Chiesa che, nel secolo precedente la Riforma, incominciò ad avanzare istanze di controllo sull’espressione figurativa. 

Per tutto il XV secolo il dipinto d’altare rimase sempre al centro degli sguardi e dunque degli interessi della comunità credente, rispondendo a un bisogno religioso fondamentale che ne sancì la diffusione e l’evoluzione come genere pittorico a sé stante, preludio del dipinto da cavalletto che veicolò la pittura post-medioevale in Europa. In ogni circostanza alla realizzazione dei dipinti d’altare concorrevano sempre almeno due fattori: da un lato la committenza, laica o ecclesiastica, desiderosa di restituire a sé stessa e alla posterità un’immagine di devozione e uno strumento di esaltazione delle proprie istanze e del proprio status; dall’altro lato la fattiva collaborazione tra pittori e intagliatori di cornici, cui collaboravano ancora altre categorie di artigiani, quali carpentieri e doratori e in alcuni casi anche gli scultori o, quando il dipinto era destinato a una costruzione nuova, gli architetti. Di conseguenza, lo sviluppo formale del dipinto d’altare non solo fu connesso alle pratiche devozionali del tempo e alle trasformazioni della liturgia, ma in misura molto maggiore di ogni altro genere pittorico del XV secolo, costituì il campo di prova e d’incontro per gli sviluppi paralleli di pittura, architettura, scultura e intaglio decorativo.

Più versatile dell’antica e altrettanto viva arte dell’affresco e forse più duttile rispetto ai gusti devozionali ed estetici dei singoli committenti, il dipinto d’altare conobbe una profonda trasformazione formale, passando dal polittico tardo-gotico alla pala unificata del Rinascimento, secondo forme e strutture diverse da una regione all’altra e da una bottega all’altra. 

La via verso l’unità formale e compositiva della pala d’altare fu aperta nel centro Italia a Firenze, dove, con opere come l’Incoronazione della Vergine di Lorenzo Monaco del 1413 e l’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano del 1423, si definì il prototipo della pala unica priva di divisioni verticali in favore di un’ampia e ininterrotta superficie per una scena narrativa a più figure. Per la prima volta gli artisti si affrancavano dalla tradizionale giustapposizione di più registri e dalla distribuzione gerarchica delle immagini secondo lo slancio verticale e serrato dell’incorniciatura, tendente a isolare le figure in cellule multiple, per dare risalto alla scena del livello mediano, meglio elaborata delle altre e tendente a restituire il senso di uno spazio unificato.

Di fatto, tra il quinto e l’ottavo decennio del Quattrocento le cornici a più comparti con alte e svettanti cimase persero gradualmente d’importanza, riducendosi a soglia, a portale, di uno spazio unificato ormai interamente costruito dalla pittura secondo una rigorosa organizzazione prospettica. La sontuosa monumentalità dei polittici di marca tardo-gotica, espressione di una devozione ostentata, volta a suscitare lo stupore reverente dell’osservatore, lasciò il passo a intagli più semplici e lineari, riecheggianti stilemi derivati dal mondo classico, in grado di fissare al contempo un limite e un raccordo tra il dipinto e il suo contesto architettonico.  

Tuttavia, sul finire del secolo, i fattori sin qui delineati vennero inaspettatamente scardinati dalla radicale rivoluzione formale introdotta da Leonardo. La prima versione della Vergine delle Rocce (1483-1485, Musée du Louvre, Parigi), infatti, dimostrò come le immagini potessero essere calate in una natura indefinita, dove l’architettura si dissolve e i rapporti tra i personaggi si risolvono attraverso un sottile gioco di sguardi, ponendo così un paradigma fondamentale per la successiva evoluzione del dipinto d’altare verso gli anni del Manierismo e della Riforma (Chastel 2006).  

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