Contenuti dell’urna – Cassa reliquiario di sant’Eldrado

Argentiere lombardo-piemontese

seconda metà del XII sec.  

argento sbalzato su un’anima di sostegno in legno di larice

47 (senza il coronamento) x 79 x 31 cm

Restauri: 1998-1999, Valeria Borgialli (Favria, TO), con rilievi grafici di Giovanni Abrardi e fotografie di Paolo Robino, direzione C. Bertolotto. Il restauro ha compreso il consolidamento del sostegno in legno, previa rimozione delle placche in argento e dei loro riempimenti in cera, e la successiva pulitura e ricomposizione delle lastre metalliche di rivestimento. L’urna, in un primo momento svuotata di tutti i suoi contenuti, è tornata a custodire le reliquie dei santi Arnulfo, Eldrado e un insieme di ossa anonime, mentre i reliquari e tessuti rinvenuti al suo interno, così come i citati riempimenti in cera, sono stati trasferiti per ragioni di conservazione nel Museo d’Arte Sacra di Susa.   

Iscrizioni: Lato anteriore (ai lati della figura della Vergine): «S(ancta) Maria»; lato anteriore (ai lati della figura del Salvatore): «ΑΩ»; sul lato posteriore, accanto alle immagini dei tre arcangeli si scorgono le lettere iniziali dei loro nomi: «G», «S M» e «R»; da ultimo sul lato minore con sant’Eldrado si legge: «S(anctus) Aldrad(us) Ab(b)as».  

Ubicazione: Chiesa parrocchiale di S. Stefano Martire di Novalesa.

Provenienza: Abbazia dei Ss. Pietro e Andrea di Novalesa. 

Bibliografia: Rochex 1670, pp. 120; Cipolla 1894, p. 263; Genin 1909, p. 73; Monticelli 1925, p. 243; Viale 1939, p. 246; Reiners 1942, pp. 24-33; Castelnuovo 1961, p.401; Mallè 1962, pp. 70 e 123; Sentis 1969, p. 73; Cavargna 1973, pp. 108-110; Romano 1977, pp. 142-144; Bertelli 1982, p. 272; Cronaca di Novalesa (ed. 1982), p. 197; Thurre 1992, pp.268-274; Piglione 1994, pp. 439-443; Bertolotto 2000, pp. 97-104; Fissore 2000, pp. 111-121; Gentile 2000, pp. 123-129; Giacobini 2000, pp. 95-96; Popolla 2000, pp. 91-94; Saroni 2000, pp. 107-109; Gentile 2004, pp. 84-88; Colombo 2005, pp. 245-252; Colombo 2006, pp. 100-101; Uggè 2006, pp. 90-91; Gavinelli 2008, p. 42 Ludovici 2013, pp. 80-81; Crivello 2021, pp. 67-73; Labate, Agostino, Gatti et alii 2021, pp. 75-83.  

Mostre: Torino 1939; Susa 1972; Torino 1977; Aosta 2013; Susa 2021. 

Lo scrigno, di forma rettangolare, mostra un doppio spiovente di copertura e un rivestimento in lamine di argento sbalzato, applicato su un’anima di sostengo in legno. Sul lato della serratura si riconoscono due triadi angeliche (con Michele, Gabriele e Raffaele a sinistra) e sei Apostoli, di contro sul lato opposto, si scorgono due coppie di angeli affiancate alla Vergine e all’Eterno, inscritto in una mandorla polilobata, mentre sui fianchi minori campeggiano San Pietro e Sant’Eldrado al di sotto di archetti trilobati. Il coronamento di ottone dorato è frutto di un’integrazione successiva alla realizzazione dell’opera, così come i quattro grandi cristalli trasparenti a schiena d’asino, posti al vertice di ogni facciata probabilmente nel corso del Trecento. Il riferimento all’abate novalicense è ridotto a un’unica figura stante, accostata a quelle degli Apostoli, che come lui e prima di lui furono testimoni di Fede. Il confronto in particolare è con San Pietro, contitolare con Andrea del cenobio novalicense e guida della prima Chiesa cristiana come – mutatis mutandis – Eldrado fu pastore della sua comunità. 

Già datata dalla critica in anni compresi tra la fine del Duecento e i primi del XIV secolo – e in un caso addirittura al 1372 – (Romano 1977, p. 142 e bibliografia precedente), la teca novalicense è ormai riconosciuta come l’opera di un argentiere lombardo-piemontese della seconda metà del XII secolo e stilisticamente e tecnicamente affine alle coeve casse-reliquario dell’area mosano-renana e a quelle limosine e del Vallese: una su tutte quella dei figli di San Sigismondo del Tesoro dell’abbazia di Saint Maurice d’Agaune (Romano 1977, pp. 142-144; Piglione 1994, pp. 439-443; Bertolotto 2000, pp. 97-104). Inoltre, le ultime analisi diagnostiche condotte sui componenti del manufatto ne hanno confermato il legame con l’area alpina nord-occidentale stante l’uso di Larix decidua (una delle essenze più comuni nella zona) per l’anima portante, e di argento dell’ovest della Germania (Foresta Nera o massiccio renano) per il rivestimento; mentre per il materiale di riempimento usato quale medium per far meglio aderire le lamine d’argento alla cassa si è scoperta una mistura di cera d’api con un componente inorganico di natura argillosa (Labate, Agostino, Gatti et alii 2021, pp. 75-83).  

Nel tempo, l’urna passò a costituire il fulcro di una collezione di reliquie (e reliquari) custodita, insieme alla memoria documentale della fondazione monastica di Novalesa, all’interno della cappella dei Ss. Cosma e Damiano (poi re-intitolata a Sant’Eldrado), sita vicino alla chiesa abbaziale, ma da questa separata presso il lato settentrionale del chiostro. Tra il 1709 e il 1718, quando la cappella, ormai guastata dall’umidità, dovette essere demolita su indicazione di Antonio Bertola, architetto incaricato della ristrutturazione del cenobio, la cassa reliquiario fu trasferita, approdando – forse dopo l’ultima soppressione del monastero (1856) – nella vicina parrocchiale di Santo Stefano (Gentile 2004, pp. 86-88).

Grazie al restauro e alla ricognizione dell’urna, compiuti nel 1998, il campo delle conoscenze intorno al reliquiario si è allargato alla complessa gamma degli oggetti in esso contenuti. Infatti, come in un gioco di scatole cinesi, la teca, oltre a custodire le reliquie di sant’Arnulfo vescovo, sant’Eldrado e un insieme di ossa anonime (Giacobini 2000, pp. 95-96; Popolla 2000, pp. 91-94), ha rivelato l’inedita presenza di una capsula in vetro contenente del sangue, di una croce pettorale e di altri quattro piccoli reliquiari. Tra quest’ultimi il più antico è un cofanetto reliquiario d’età longobarda (fine VI-inizio VII sec.), rivestito con piastre d’osso inciso, punzonato e traforato, contenente un sacchetto porta-reliquia (Egitto IV-VI sec.), su cui è ricamata la scena dello Sposalizio della Vergine descritto nel Protovangelo di Giacomo (Saroni 2000, pp. 107-109; Colombo 2005, pp. 247-251; Colombo 2006, pp. 100-101; Uggè 2006, pp. 90-91); seguono due reliquiari a pisside ornati con motivi fitomorfi fra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo (Bertolotto 2000, pp. 98-100; Gentile 2004, pp. 84-85), e un coevo reliquiario in legno naturale realizzato al tornio (Bertolotto 2000, pp. 97-98). Insieme ai reliquiari i ricercatori hanno trovato anche delle semplici tele in lino, atte ad avvolgere le reliquie, e un frammento di tessuto operato di color purpureo, con un motivo “a leoni affrontati” e un’iscrizione in lettere greche, le cui caratteristiche tecniche e iconografiche situano fra le sete bizantine realizzate alla corte di Costantinopoli all’inizio del IX secolo (Colombo 2005, pp. 245-252). Da ultimo, sotto il sacchettino con le reliquie di Eldrado è stata rinvenuta una piccola pergamena di foggia rettangolare con i primi quattordici versi del prologo del Vangelo di Giovanni, seguiti da un triplice signa crucis (chiara invocazione simbolica alla Trinità), qui riconosciuta quale preghiera di benedizione e formula apotropaica contro il male comune nella religiosità medioevale (Fissore 2000, pp. 111-121; Gavinelli 2008, p. 42).